Ordinarie epifanie

Siamo arrivati alla casa di Giovanni in una mattina piovosa di fine giugno, per visitare il suo studio e lavorare alla mostra.
In questo spicchio della Val di Cecina più prossima a Volterra, la natura pare non essere mai cambiata, in luoghi solitari e selvatici, fuori dai giri di ogni turismo. Odore di fieno bagnato, intorno, e grandi nubi in transito, cupe a tratti, poi squarci improvvisi di luce nuova ad occidente, dal mare, verso sera, mentre si levano i venti di ponente. La vegetazione di macchia parte dal ciglio della strada bianca e si arrampica su per i colli dolci dintorno, mentre la piana si offre allo sguardo fino a incontrare la lingua luminescente del mare, all’orizzonte. Vedute sublimi, eppure “ordinarie”, che ad ogni stagione e giorno ed ora si offrono, nel mutare della luce davanti agli occhi del pittore, e che lui ferma, quasi per caso, con gli scatti veloci del suo cellulare o del cellulare di un figlio o di un amico. Poi la visita allo studio, non distante, tra le frasche umide del bosco. Dalle ampie finestre orizzontali entra la luce verde, vibrante della vegetazione, e par quasi di immergersi in un acquario.
Giovanni apre la cartella sua più recente, Natura ordinaria l’ha intitolata, nel proposito di una registrazione pacata della vita quotidiana, senza simbolismi, senza messaggi, in un atto di fedeltà assoluta allo sguardo.
Seduti davanti al torchio, sfogliamo insieme le carte di ampio formato, una dopo l’altra, in sequenza, con le incisioni a più lastre che saranno esposte al Bisonte, in autunno.
Sole nella nebbia, è il primo trasalimento: la silhouette in controluce degli alberi stecchiti dal gelo punta direttamente al cuore dell’emozione, provata un giorno d’inverno davanti allo spettacolo del bosco nel quale lo studio è avvolto. Partendo dall’immagine fotografica impressa sulla lastra, la mano dell’artista ha elaborato un fitto arabesco di rami intrecciati, trasfigurando l’immagine reale alla ricerca di contrasti con il pallore sfocato del cerchio di luce bianca nella nebbia. Non diversamente coinvolge Any given clouds: il campo dell’immagine è totalmente occupato dall’arruffato addensarsi delle nubi, che velano a tratti il cielo blu cobalto, e poi si illuminano del biancore della luna, a squarci. Torbido e luccicante, nei suoi recessi più turbinosi, Mare-luce si apre in una prospettiva diagonale e abbreviata di un notturno drammatico. Luce ovunque (Val di Cecina) rimanda direttamente al paesaggio che si apre davanti alle finestre di casa, riconoscibile, eppure trasfigurato da lame gialle e bianche, quasi tangibili, nella luce di un tramonto invernale, su una striscia lontana di mare.
Giovanni spiega che non ha inseguito il trasalimento romantico degli spazi mistici di Friedrich, e neppure lo stato d’animo allucinato che incendia gli spazi indefiniti di Turner, né tantomeno la gagliarda bellezza delle nuvole di Constable sulle campagne floride delle valli dell’Avon e del Somerset. Ha semmai rappresentato il riverbero veridico dei suoi paesaggi maremmani, cercando di fermarlo nella memoria con un semplice scatto, poi traducendolo in studio, attraverso il succedersi delle lastre impressionate e poi inchiostrate a colori, una dopo l’altra, serrate dalla giustezza dei regoli, con una tavolozza essenziale di colori primari e pochi altri toni, uno per ciascun passaggio al torchio.
Il controllo rigoroso del mezzo e l’attitudine analitica consentono all’artista di calibrare gli effetti, con magistero: ma poi accade sempre qualcosa di inatteso e imprevedibile, e fa parte del gioco. Dalla sequenza delle lastre inchiostrate e dalla ripetizione delle prove di stampa, viene fuori l’immagine attesa, quasi trovata, per via di sensibilità. Alla fine Giovanni si ferma, decide di interrompere la sua ricerca, che paradossalmente potrebbe non concludersi mai; e arriva così l’ultima stampa. In quel risultato rimane condensata la storia dell’intero processo, le decine e decine di prove iniziali e intermedie, che si affastellano negli scaffali dello studio ad asciugare, poi a riposare.
In Caprifoglio il campo di ricerca si sposta verso altri esiti, dati dallo sguardo ravvicinato dell’obbiettivo fotografico: si produce un effetto di dissolvenza della forma, che si sgrana alla ricerca di soluzioni astratte, laddove i contorni del fiore perdono ogni definizione grafica per lasciar prevalere astratte forme di fucsia, che si allargano con esotica armonia.
Il taglio dell’immagine, tanto ravvicinato da isolare il dettaglio nella distillata purezza di una ellisse, arriva in Tazzina a emulare le possibilità di una inquadratura macro, in quel particolare modo di percepire il mondo per frammenti, caratteristico di chi vede con lo sguardo del fotografo, in poetica distorsione del vero. La più umile ordinaria suppellettile casalinga si trasfigura con effetto metafisico, pare immanente, sottratta al flusso naturale del tempo, non diversamente che nei paesaggi, fermati in un attimo eternamente presente, a costruire un’attesa.
Il percorso dell’artista, così come la cartella di incisioni documenta, si offre in scelte apparentemente distanti: insegue l’emozione della luce nella vastità dei paesaggi, sperimenta l’annullamento della figurazione nello sfocarsi dei contorni di un fiore di campo, per giungere infine alla ricomposizione oggettiva e nitida dei dettagli di vita quotidiana.
Tu mi guardi conferma questo percorso. L’affuoco sull’occhio sinistro del figlio, che campeggia monumentale sulla intera superficie disponibile, presuppone un’organizzazione dello spazio e dei colori tutt’altro che casuale, e una presa sul vero quanto mai ferma e oggettiva, tanto più nella difficoltà di restituire la cromia dell’epidermide.
Si accende il gioco dei rimandi, per chi guarda: pare a tratti evocata l’estraniante evidenza della pittura di René Magritte, la cruda metafisica del quotidiano della poetica Pop, il senso di perturbante sospensione nei dettagli del quotidiano di Domenico Gnoli, fino alle estranianti lentissime riprese di vita privata, nei film anni Sessanta di Michelangelo Antonioni.
Giovanni mi ascolta, intuisce certo, riconosce percorsi e ragioni del mio sondaggio e dei rimandi, ma a tratti con lo stupore di chi non ci aveva mai prima pensato. Dobbiamo convenire insieme che sono forse quelli i modi di una narrazione condivisa: per chi, della nostra stessa generazione, si affacciava all’arte negli anni Ottanta, dopo la stagione concettuale e minimalista, raccontare era nuovamente possibile attraverso quei percorsi, che apparivano ai nostri occhi fragranti, nuovamente moderni, attraenti.
Così, accanto agli oggetti ravvicinati e come sgranati in dissolvenza, alla sintesi di pochi dettagli obsoleti del quotidiano appaiono anche scenografie di vita urbana. Ecco l’immagine di un interno di metropolitana in una serata d’inverno, scandito dallo sfondo geometrico dei corrimano tubolari d’acciaio, o il retro degli spalti di uno stadio affollato prima della partita, appena fuori fuoco in alcuni dettagli, o ancora la fuga prospettica di una corsia d’autostrada, mentre i fari lontani di poche macchine accendono l’imbrunire sull’Appennino.
È in atto una produzione ispirata alle icone della contemporaneità, che mi ricordano alcuni coraggiosi pittori e incisori che dagli anni Sessanta avevano frequentato la stamperia Il Bisonte, a Firenze, dove lo stesso Giovanni sarebbe approdato nei primi anni Novanta, a imparare le tecniche incisorie: mi viene in mente Dino Boschi, classe 1923, che si confrontava con il mondo dello stadio, dei giocatori di calcio, della folla sulle gradinate, nei modi di un pop tutto italiano. O come Leonardo Cremonini, che si addentrava in un variopinto repertorio di carpenteria del quotidiano assurta a mitologia, in interni/esterni visti come da un potente teleobbiettivo, descritti con lucida esattezza, ma per celebrare il regno della solitudine, della incomunicabilità, della labilità. O ancora come nelle immagini del quotidiano di Gustavo Giulietti, nel cui studio entravano nuove presenze, come un ingombrante proiettore di diapositive e un episcopio per la proiezione di immagini su carta stampata, rotocalchi, cartoline, fotografie: strumenti utili per un nuovo metodo di “taglia-incolla” con cui fotocomporre, ingrandire, proiettare su tela emulsionata, quindi elaborare pittoricamente, introducendo nell’osservatore il sospetto di un “senso” riposto, di un messaggio implicito, con esiti di solennità. Tecniche avventurose, quelle neo-avanguardiste, animate dalle incursioni nel mondo della pubblicità, del cinema, nel brivido di una avvincente, giovanile low culture, che anche a Firenze, fra i torchi del Bisonte, trovavano una propria autorevole dimensione in litografie e serigrafie e acqueforti policrome. Giovanni probabilmente non ha mai avuto occasione di studiare alla stamperia queste esperienze, ma sicuramente le ha respirate, a contatto con una scuola che proprio da quelle ricerche aveva preso le mosse, nell’atteso riscatto dell’incisione verso una modernità piena di promesse.
Comprendo che Giovanni gioca comunque su altro tavolo la propria partita. Si avverte un’esigenza profonda di sondare; nelle sue carte lo sviluppo della forma vive di una differente e particolare vibrazione, mantiene un tormento speciale, laddove la natura che abita quegli spazi non è immaginaria, ma fisicamente concreta, propria di uno spazio essenzialmente empirico, dal quale l’artista si lascia coinvolgere emotivamente.
“Tornare all’emozione dello sguardo”, lui dice, e viene in mente Stagno a Santa Bianca con i pesci rossi che fra le ninfee nuotano a profondità diverse, in controcanto al punteggiato delle bollicine d’aria che galleggiano sulla superficie e che paiono quasi un cielo stellato. O come in Aven, la carta che più da vicino torna a rendere omaggio agli amati Monet e Cézanne, ma con senso panico moderno e inquieto che ben rappresenta l’artista del presente, con densità di pensieri. Tracce, tutte, di nuove “ordinarie” epifanie.

 

Giovanna Uzzani