Su La Pietà

Il lavoro che Giovanni Greppi presenta è il frutto di qualche anno di lavoro, di ripensamenti e di sperimentazioni attorno alle tecniche dell’incisione. Il sistema da lui adottato prevede una sovrapposizione di lastre che vengono a produrre praticamente ogni foglio come pezzo unico.
Oggetto del suo interesse è divenuto il complesso meccanismo con il quale le immagini che registriamo nella memoria o nella coscienza vengono a costituire un insieme quasi imperscrutabile, dove figure piacevoli e tragiche si sovrappongono in un unico coagulo di forme e colori.
Ciò che contraddistingue, in primo luogo, il ciclo di fogli da lui predisposto ora, è il distacco dal naturalismo che caratterizzava, pur con il filtro delle ricerche cromatiche e degli effetti pittorici, la sua pittura e la sua grafica degli anni Novanta. Tale allontanamento dal naturalismo si consuma, secondo un apparente paradosso, mentre l’immagine diventa predominante come origine o sottofondo del suo procedimento. Vi può essere, all’interno del risultato finale, l’impressione di uno sdoppiamento delle possibilità di intendere questi lavori, risultando inevitabile, nel riferirsi a immagini molto spesso riconoscibili, cedere alla tentazione di leggere queste, o i frammenti di esse che risultano più evidenti, come guida di un senso che convergerebbe così verso un contenutismo immediato e didascalico. Dall’altra parte, è indubbio che queste visioni in controluce permangono come tracce indistinte, quasi un tessuto sul quale dipanare la trama dei colori stirati e impossibili, che così sarebbero, come le note più acute di un violino, esaltati fino al virtuosismo, e che sono parte integrante di un procedimento che vuole coniugare memoria dell’immagine e il carattere pittorico indipendente della stesura unica.
Dove Greppi riesce a raggiungere una reale fusione fra le due componenti di questo suo lavoro, il valore dell’operazione da lui avviata raggiunge un equilibrio che può essere solo di un momento, ma che permane in una zona della visione che non è solo, fenomenologicamente o fisiologicamente, individuabile nel passaggio immagine-occhio-cervello. Si potrebbe anzi dire che, secondo processi che le indagini sul funzionamento dei media ci hanno ampiamente dimostrato, le immagini percepite non passino necessariamente attraverso il filtro della ragione o ancora che le vediamo diversamente da quello che sono, sulla base dell’esperienza. Si fondono, nell’indistinto così evocato, sovrapposizioni di forme o figure di cui si riesce ad essere consapevoli ed altre che si potrebbero definire subliminali. Non è che Greppi cerchi di ammaliarci o di agire come un mago della comunicazione, ma anche egli, per ragioni diverse, opera un accumulo di informazioni che si riducono in un quasi totale annullamento dell’informazione. Ci dice, e lo intuiamo facilmente dall’osservazione della serie di questi lavori, che vi sono almeno due registri di sollecitazioni interne al materiale selezionato: da una parte le sempre più tragiche e crude visioni del dramma umano in tutte le sue forme, dalla violenza su di sé e sugli altri, all’incomprensione, alla negazione dell’umano; dall’altra quel diario intimo di sguardi fondati sulla speranza che proviene, per esempio, dall’osservazione dei giochi dell’infanzia.
I due poli di tali sollecitazioni che entrano a far parte dell’iconosfera all’interno della quale siamo calati, anche se non sempre ce ne rendiamo conto, e di cui fanno parte le aggressive e inquietanti immagini di una cronaca tragica fino ad un grado quasi insostenibile, si incontrano e sovrappongono all’infinito nelle diverse sovrapposizioni, venendo evidenziate secondo un processo parzialmente guidato e in parte invece derivato dalla singolare disposizione del colore in quella particolare lastra. I toni cromatici contribuiscono a rendere più intensamente drammatica o più riposante ciascuna delle soluzioni proposte, potendosi moltiplicare senza fine lo spettro degli avvicinamenti e distanziamenti possibili.
Può essere facile individuare nella figura “simbolica” della “Pietà”, esemplificata dal più noto dei marmi michelangioleschi dedicati a questo tema, una possibile presenza riassuntiva o di equilibrio fra il male della tragedia e la redenzione dell’amore, in quell’incontro di affetti che può anche essere, nelle possibili interpretazioni superficiali del tema, solo esteriore; o nella ripresa di un’opera della serie delle “Donne di Allah”, realizzata da Shirin Neshat qualche anno fa, uno dei modelli per cogliere il senso del presente, in quel rapporto fra cultura araba o islamica, l’allusione alla violenza e la dimensione nascosta del femminile. Al di là di questi rimandi fin troppo espliciti, il punto in cui la dose di racconto utilizzata dall’artista originario di “quel ramo del lago di Como” si rende più affine a matrici dell’arte contemporanea è forse quel gioco di connessioni apparentemente casuali tentato negli assemblage di immagini personali e pubbliche praticato da Robert Rauschenberg, dove analogie di trattamento portano alla sovrapposizione di colori posti a mascherare o a rivelare le suggestioni visive originarie, disposte in un tessuto che si giustifica attraverso le zone di ombra e di luce, di evidenza e di nascondimento.
Ciò che Greppi mette in atto è forse, ancora una volta, il tentativo di ricorrere alle dimensioni inconsapevoli o inconscie della rappresentazione, secondo quei percorsi imprendibili che la psicanalisi o le scienze umane hanno tentato di comprendere, lasciando necessariamente spazio a un’interpretazione mai definitiva.
Queste immagini, le immagini che ci passano addosso, sono in fondo della stessa sostanza dei sogni, finché non riusciamo a catturarle, renderle vere, oppure a “redimerle”. Il pericolo potrebbe essere quello di ritrovarci, come i protagonisti del film di Wim Wenders “Fino alla fine del mondo”, incantati a guardare in uno strumento sofisticato i frammenti e i colori confusi dei sogni avuti nel sonno, secondo visioni che queste opere di Greppi evocano, senza pensare che già la fantasia e la capacità di quei manipolatori di immagini che sono i pittori, i grafici e gli artisti in genere possono piegarle ad essere altro dalla loro realtà, a trasporle in un piano che non richiede più alcuna spiegazione o interpretazione.

 

Francesco Tedeschi